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Avatar, la via dell’acqua

Cameron, un pioniere tradizionalista

Avatar: La Via dell’Acqua è il secondo capitolo della saga fantasy creata da James Cameron, forse l’ultimo grande pioniere del cinema americano. Laddove Hollywood preferisce investire su franchise sicuri e a basso rischio come i film della Marvel, Cameron continua a inventare e a scommettere sul potere dell’immaginario rigenerativo del cinema, respingendo la dittatura dell’algoritmo e utilizzando la tecnologia (di cui peraltro è grande sperimentatore, portandola ogni volta a un livello di sofisticatezza mai raggiunto precedentemente) per come va usata, ovvero come strumento sussidiario e amplificatore della visione umana. Lo sviluppo degli effetti speciali e della tecnica digitale consente a Cameron di dare vita e polpa a un mondo un tempo solo sognato e oggi realistico, credibile, abitabile.

Abitabile proprio perché l’esperienza cinematografica che Cameron offre è immersiva al massimo grado, anche grazie al rilancio di un 3D finalmente capace di garantire un surplus sensoriale allo spettacolo in sala (sala di cui Cameron resta strenuo difensore, concependo i suoi film soprattutto per questo tipo di fruizione). E poco importa se tra un film e l’altro possono anche trascorrere tredici anni, com’è accaduto tra il primo e il secondo Avatar: il film si fa solo quando è possibile realizzarlo secondo l’idea visiva ed esperienziale che Cameron ha immaginato.

Ecco perché Cameron viene definito anche, e in apparente contrasto con questa sua vocazione tecnologica, un regista classico: egli concepisce il cinema ancora come rito collettivo, spettacolo catartico, esperienza da vivere in sala.

La matrice western

La matrice western

Classico è anche lo spartito narrativo alla base della saga. Come è stato segnalato già in occasione del precedente film, Avatar rielabora in regime fantasy il mito della frontiera, nucleo fondativo del mito e del cinema americano: l’Eldorado da conquistare è Pandora, una terra vergine, ricca di risorse, dove gli abitanti – i Na’vi, i “Nuovi avi” che raccolgono l’eredità degli indiani del western - vivono in armonia con la natura. Un’armonia minacciata dalle mire espansionistiche dei colonizzatori, sempre loro, gli esseri umani. La resistenza dei Na’vi nel primo Avatar era guidata da un colonizzatore che tradisce e viene “adottato” dalla popolazione a rischio, il marine Jack Sully (Sam Worthington), come Kevin Costner in Balla coi lupi. In questo secondo film ritroviamo Jack Sully e la sua nuova famiglia “mista”: Jake e Neytiri (Zoe Saldana) sono genitori di ben cinque figli, di cui tre naturali, Neteyam (Jamie Flatters), Lo’ak (Britain Dalton) e Tuk (Trinity Jo-Li Bliss) – che in realtà sono dei mezzosangue in quanto il padre Jake non è un Avatar puro: perciò i figli di Jake a differenza degli altri Avatar possiedono cinque dita anziché quattro - e due adottati, Spider (Jack Champion), un terrestre rimasto sulla luna perché troppo piccolo per il criosonno, e Kiri (Sigourney Weaver), nata in circostanze misteriose dal corpo da Avatar della fu dottoressa Grace Augustine.

L’innesco di questa seconda grande avventura avviene con il ritorno dei cattivissimi umani su Pandora, capitanati ancora una volta dal perfido Quaritch, il marine che era stato ucciso nel precedente film da Neytiri e che torna adesso nel corpo del suo avatar, più alto, blu e feroce. Per sfuggire alla furia degli invasori, Sully e famiglia decidono di fuggire trovando riparo in un emisfero di Pandora bagnato dall’oceano, dove vive una tribù Na’vi acquatica, i Metkayina, che ricorda gli antichi maori. Salvare vite è una legge del mare, si sa, e questa tribù la conosce e la applica alla lettera, accogliendo non senza qualche tensione il gruppo di profughi. Tuttavia quando le cose sembra che inizino ad andare per il verso giusto, i conquistatori (con tanto di cacciatori di tulkun, specie di balene amiche dei Metkayina) tornano alla carica attaccando la pacifica tribù e compromettendo il fragile ecosistema.

I rimandi culturali e i temi politici

Al cospetto di una fruibilità da cinema mainstream, Avatar – La via dell’acqua è un film di straordinarie stratificazioni culturali, che Cameron lavora con invidiabile maestria, inserendoli con naturalezza nella fluidità di un racconto a un tempo archetipico e fondativo. Un tipico racconto alla Cameron con tutte le implicazioni politiche.

C’è il mito della frontiera, come detto, che il regista canadese libera dalle pastoie del passato per farne discorso vivo di drammatica attualità: l’imperialismo è tutt’uno con lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali e svela la relazione perversa tra volontà di potenza, militarismo, razzismo e distruzione sistematica dell’ecosistema. Pandora è l’Eden che ci era stato donato e che abbiamo assaltato, salvo poi scoprire che questo paradiso è anche capace di reagire e di ribellarsi, come suggeriscono le cronache degli odierni cataclismi. Per rivitalizzare il proprio immaginario Cameron passa dai popoli nativi che avevano fatto da modello esplicito dei Na’vi nel primo capitolo agli antichi māori, in cui pare di riconoscere facilmente i Metkayina. Costumi, capigliature, tatuaggi richiamano in modo evidente l’antica popolazione scoperta più di duecento anni fa da James Cook durante le sue esplorazioni dell’Oceano Pacifico sulla Endeavour. E a proposito del rapporto con le creature acquatiche, difficile che Cameron e il suo staff non abbiano letto Kahu e la balena di Witi Ihimaera, primo autore māori a pubblicare libri tradotti in tutto il mondo, che “anticipa” il rapporto tra i Metkayina e i tulkun di Avatar. Del resto il rapporto speciale con il mare e le creature dell’acqua segna tanto la forma della spiritualità dei māori quanto quella dei Metkayina.

Lo spirito dell’acqua

L’acqua è l’elemento cameroniano per eccellenza. Il regista di The Abyss e Titanic è una specialista non tanto delle riprese subacquee – dove pure eccelle – ma nel trasformare l’ambiente marino in spazio narrativo – sfruttandone al massimo le potenzialità spettacolari (esaltando il carattere di “meraviglia” del dispositivo cinematografico) e di racconto connesse alle caratteristiche uniche del mare (trattato come una sorta di pianeta alieno che richiede prudenza, umiltà di approccio, spirito di adattamento) e mondo discorsivo, perché funziona da potente reagente simbolico per i temi che a Cameron interessa. D’altra parte, l’acqua si fa carico storicamente, culturalmente e allegoricamente di tutta una serie di significati che riguardano la condizione dell’uomo sulla terra: già nella Bibbia l’acqua ora salva (è sorgente di vita), purifica (il battesimo nelle acque del Giordano), accoglie (le acque del Mar Rosso che si aprono al passaggio degli ebrei in fuga dall’Egitto), ora annienta (il diluvio), inghiotte (il Mar Rosso che si richiude sugli egiziani), divora (la balena di Giona). Un’ambivalenza che Cameron riprende. E come nel film precedente Pandora mostrava come non si potesse tirare troppo la corda con la natura, pena la sua reazione furiosa, in questo secondo capitolo è il mare a ribadire il concetto, quando l’acqua e le sue creature si schierano apertamente nella battaglia che infuria tra popoli nativi e conquistatori. Ma è la dimensione spirituale connessa all’acqua che è interessante. Anche qui Cameron si rifà a credenze primitive. L’acqua, come la foresta di Pandora, possiede un’anima con cui possiamo, dobbiamo, connetterci. Superando la logica dell’utilitarismo, la concezione degli elementi naturali come risorse da sfruttare. Per abbracciare quella della relazione: ecco, dunque, che i giovani Na’vi dovranno imparare a respirare in un certo modo quando sono sott’acqua, a rallentare i propri battiti del cuore, accettando di essere ospiti in un mondo che ha le proprie regole e il proprio equilibrio. Del resto l’acqua non è solo l’habitat di straordinarie forme di vita (per la realizzazione delle quali Cameron dà fondo al suo lato più giocoso, infantile) ma un’altra forma della memoria dello spirito madre di Pandora (Eywa), con cui la figlia adottiva di Jack e Neytiri, Kiri, riesce ad entrare in connessione profonda. Sembra di rileggere Luc Montagnier, Premio Nobel per la medicina, e i suoi studi sui ricordi dell’acqua: quest’ultima agirebbe sia come recettore, perché capace di ricevere le frequenze d’onda e di memorizzarle, sia come trasmettitore, in quanto invia le frequenze delle onde memorizzate come informazione. Se l’acqua ricorda, l’acqua può essere ascoltata per fare nostro il suo monito alla pace, all’armonia, alla bellezza. Alla base dell’ecologismo di Avatar non c’è ideologia ma il sentimento di compartecipazione alla vita di tutte le sue creature, in tutte le loro forme. Pandora non è semplicemente il pianeta dei sogni devastato dall’avidità umana, ma è casa. Una casa che sente, ricorda, soffre insieme a noi. I popoli nativi lo sapevano e avevano imparato per primi a vivere in simbiosi con l’ambiente, nel rispetto di ogni forma animale e vegetale. Avevano appreso ad essere custodi del Pianeta, non usurpatori. La loro lezione arriva fino a noi anche attraverso le moderne mitografie del cinema e della letteratura, attraverso gli avatar che il nostro sapere, insieme tecnico e ancestrale, si ostinano a creare.

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