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EBRAISMO Attualità

Ebraicità dell’apostolo Paolo nella storia dell’interpretazione

Mosaici della Cappella Palatina (XII secolo), Palermo; san Paolo, particolare

Se si sta ai testi, Paolo non conosce l’aggettivo “cristiano”, che d’altronde non esiste ancora al suo tempo. Sappiamo da Luca che i discepoli furono chiamati cristiani ad Antiochia; ma Atti 11, 26 è anacronistico, anticipa la cosa agli anni 30. In realtà Paolo non conosce questo aggettivo. Lui si ritiene un giudeo, è un giudeo in Cristo. Ecco perché non usa mai il lessico della conversione. Paolo non è un convertito. Il giudeo non si converte. C’è una celebre frase del rabbino di Roma Eugenio Zolli, battezzato dopo la Seconda guerra mondiale: «Io non sono un convertito, sono un arrivato»; perché il convertito è colui che gira le spalle al suo passato, invece il giudeo non gira le spalle, va solo avanti. Certo, Paolo ha conosciuto un passaggio. Lo mostra in Filippesi 3, 7: «Tutto quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo». Il guadagno in cosa sarebbe consistito? Nella adesione farisaica (in senso non volgare) alla Legge, ovvero nella adesione totale, completa, alla Legge, tanto da considerarla come condizione del proprio essere giusto davanti a Dio. Paolo questo l’ha superato. Però Israele resta sempre il punto di riferimento. Basterebbe riandare ai capitoli 9-11 della Lettera ai Romani: i Gentili sono innestati su Israele; la pianta è santa se la radice è santa (cfr. Rm 11, 16ss). Noi viviamo di una santità derivata; non primaria, ma secondaria, e proprio dal punto di vista storico-salvifico. Dico sempre che il cristianesimo è semplicemente una variante del giudaismo, e mi fanno pena quelli che polemizzano con Israele o che, addirittura, come si legge nella cronaca, compiono gesti vandalici: costoro non hanno capito niente di cosa significa essere cristiani.

Romano Penna, San Paolo un giudeo in Cristo, mensile 30 giorni, n. 5 del 2008, Bologna

Leggendo i capitoli 9-11 della Lettera ai Romani è facile capire che l’apostolo Paolo si è sempre considerato appartenente al popolo di Israele, pur vivendo ed operando in un mondo che parlava greco.

Come afferma il teologo statunitense Ed Parish Sanders:

«la sua istruzione e la sua educazione furono ebraiche; le categorie principali del suo pensiero furono ebraiche; la sua missione si svolse nel tessuto dell'escatologia ebraica; l'esito finale che desiderava ardentemente fu una forma universale di speranza ebraica».

ED PARISH SANDERS, https://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/116q04a1.html, 10/10/2022.

Ma nella storia dell’interpretazione Paolo è un personaggio molto controverso e spesso gli storici della Chiesa e i teologi hanno cercato, attraverso l’interpretazione delle lettere dell’Apostolo, di ricostruire il suo ruolo nel contesto storico e culturale del suo tempo e nell’ambito del cristianesimo primitivo.

Nella ricerca ebraica dell’epoca moderna si ritiene che Paolo sia il vero fondatore del cristianesimo e il fautore della sua radicale opposizione all’ebraismo.

Ma si deve riconoscere che Paolo non ripudia il suo popolo ed anche alcune sue valutazioni negative come quella espressa in 1 Ts 2,15, non riguardano i giudei in quanto gruppo etnico-religioso, ma esprimono una condanna per la loro opposizione al disegno di Dio che vuole salvare tutti gli uomini per mezzo dell’annuncio del Vangelo.

Attualmente è in corso una revisione del rapporto di Paolo con la Legge e il suo popolo e, ponendo l’esame dei suoi scritti sullo sfondo del Giudaismo del primo secolo, si cerca di porre fine ai tanti pregiudizi che, prendendo spunto da alcune interpretazioni della sua opera, ancora oggi rendono complicato il dialogo tra ebrei e cristiani.

La relazione tra la Chiesa e il popolo ebraico, definita a partire dalla Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate, è oggi intesa all’interno di un nuovo quadro teologico che attribuisce uno statuto speciale alle relazioni ebraico-cattoliche nell’ambito più vasto del dialogo interreligioso.

I temi che già dall’immediato postconcilio sono stati posti all’attenzione degli studiosi e poi fissati nel susseguirsi di documenti esplicativi, trovano certamente alcuni elementi fontali nell’opera di San Paolo.

Nella Lettera ai Romani san Paolo riflette profondamente sull’elezione di Israele in rapporto a Cristo ed usa l’immagine suggestiva della radice santa dell’albero di ulivo, con la sua linfa vitale che nutre anche i rami selvatici innestati in esso (cioè i pagani convertiti a Gesù).

E proprio alla Lettera ai Romani si ispira il documento emesso il 17 dicembre 2015, dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, organismo della curia romana vaticana. Il documento riporta il titolo “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29): Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50º anniversario di Nostra Aetate (n. 4).

Non si tratta di un documento ufficiale del magistero della Chiesa, ma di un documento di studio il cui intento è quello di approfondire la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico, un documento che si inserisce nell’ambito del dibattito e della riflessione sull’opera dell’Apostolo, che nel mondo contemporaneo sono in pieno sviluppo.

Il cuore del documento affronta, al n. 4, il tema della relazione tra Antico e Nuovo Testamento e tra Antica e Nuova Alleanza:

L’Alleanza offerta da Dio a Israele è irrevocabile. "Dio non è un uomo da potersi smentire" (Nm 23,19; cfr. 2 Tm 2,13). La permanente fedeltà elettiva di Dio espressa nelle alleanze precedenti non è mai stata ripudiata (cfr. Rm 9,4; 11,1-2). La Nuova Alleanza non revoca le precedenti alleanze, ma le porta a compimento […]Che possa esserci soltanto un’unica storia dell’alleanza di Dio con l’umanità e che, di conseguenza, Israele sia il popolo eletto e amato da Dio, il popolo dell’alleanza, che non è mai stata sostituita o revocata (cfr. Rm 9,4; 11,29), è la convinzione alla base dell’appassionato sforzo dell’Apostolo Paolo di conciliare, da un lato, il fatto che l’Antica Alleanza di Dio continua ad essere valida e, dall’altro, il fatto che Israele non ha accolto la Nuova Alleanza. Per rendere giustizia a entrambi, Paolo ha ideato l’immagine eloquente della radice di Israele nella quale sono stati innestati i rami selvatici dei gentili (cfr. Rm 11,16-21). Si potrebbe dire che Gesù Cristo porta in sé la radice vivente dell’"oleastro" e che, in un senso ancora più profondo, l’intera promessa è in lui radicata (cfr. Gv 8,58). Questa immagine è per Paolo la chiave decisiva per interpretare la relazione tra Israele e la Chiesa alla luce della fede. Con questa immagine, Paolo esprime la duplice realtà dell’unità e della differenza tra Israele e la Chiesa. Da un lato, questa immagine deve essere compresa nel senso che i rami selvatici innestati non sono all’origine i rami della pianta nella quale vengono innestati; la loro nuova situazione rappresenta una nuova realtà e una nuova dimensione dell’opera salvifica di Dio, tanto che la Chiesa cristiana non può essere semplicemente intesa come un ramo o un frutto di Israele (cfr. Mt 8,10-13). Dall’altro lato, questa immagine deve essere compresa anche nel senso che la Chiesa trae nutrimento e forza dalla radice di Israele ed i rami innestati avvizzirebbero o addirittura morirebbero se fossero recisi da tale radice.

Sarà Papa Giovanni Paolo II, nel novembre 1980, durante un incontro con i rappresentanti della comunità ebraica di Magonza ad affermare che

“l’Antica Alleanza non è mai stata revocata”

e questa dichiarazione verrà riportata nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1993, al n. 121: «L'Antico Testamento è una parte ineliminabile della Sacra Scrittura. I suoi libri sono divinamente ispirati e conservano un valore perenne, poiché l'Antica Alleanza non è mai stata revocata».

Sempre in Rm 11 l’Apostolo affronta anche il tema della salvezza di Israele ribadendo che non può esserci rottura nella storia della salvezza e che tutto Israele sarà salvato, così come è scritto: «Il liberatore verrà da Sion» (Rm 11,26)

Dio dunque non ripudia il suo popolo «perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29).

Dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.

Questo brano tratto dalla Lettera ai Romani, al capitolo 9, mostra l’ardore che Paolo prova verso i suoi fratelli ebrei e ne conferma la sua mai rinnegata ebraicità.

«C’è ancora spazio per recuperare l’autenticità del suo messaggio, testarlo con il fuoco della critica storica e vedere se il problema non sia piuttosto quello di riscattarlo da una lunga tradizione di intolleranza?» (CFR. G. BOCCACCINI, Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo, Claudiana, Torino (2021), 13)

Questo è ciò che si domanda Gabriele Boccaccini nel volume Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo, pubblicato di recente da Claudiana, collocandosi all’interno della “Nuova Prospettiva” sull’ebraicità di Paolo, inaugurata alla fine degli anni ’70 del secolo scorso.

Nella cosiddetta “terza ricerca su Gesù” (la “third quest”) che trae origine dagli studi paolini di Ed Parish Sanders, tra cui Paolo e il Giudaismo palestinese del 1986 e Paolo, la Legge e il popolo giudaico del 2000, Paolo rappresenta solo uno dei tanti volti dell'ebraismo del tempo e la prospettiva paolina non deve essere presa come una fedele copia del giudaismo del tempo.

James D.G. Dunn prosegue questo nuovo tipo di studi su Paolo, un nuovo modo di guardare al vangelo di Paolo e alla sua teologia: "la nuova prospettiva" su Paolo ha fornito intuizioni nuove e preziose riguardo alla teologia di Paolo cercando di svincolarsi dall’ “antica prospettiva”, chiave interpretativa di Lutero e dei riformatori, incentrata sul conflitto fra Legge e Grazia.

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